Questa mattina ho assistito ad una conversazione di alcune persone vicino a me. Classica conversazione in cui una chiedeva all’altra che lavoro fai? E l’altra rispondeva sono un avvocato! Quante volte anche noi ci siamo trovati a rispondere ad una domanda del genere? E quante volte ci siamo soffermati ad ascoltare la risposta mentre la pronunciavamo? Ora provate per un attimo a ripetere nella vostra mente la scena. Che lavoro fai? Fai… Voce del verbo fare. Non ti è stato chiesto chi sei. Ti è stato chiesto cosa fai per guadagnarti da vivere! Perché allora alla domanda che cosa fai rispondiamo usando il verbo essere? Perché la riposta è sono “qualcosa”? E non faccio quel qualcosa? Perché si confonde e si usa indiscriminatamente il verbo essere al posto del verbo fare se non sono sinonimi? Qui si pone la questione sull’identità.

Quando rispondiamo a questa domanda confondendo il verbo da usare, vuol dire che ci stiamo identificando con quello che facciamo, che c’è una sovrapposizione tra il mio lavoro e quello che credo di essere. Facendo un esempio concreto, se il lavoro che svolgo è quello dell’avvocato vorrà dire che il vestito che indosso o la mia maschera avrà determinate caratteristiche. Ad esempio, potrei avere un tono professionale anche in situazioni in cui non sto svolgendo la mia professione. Magari sono al mare e potrei continuare ad avere lo stesso atteggiamento da tribunale: un tono impostato, uno sguardo serio, un linguaggio forbito, una soluzione sempre pronta anche per il vicino di ombrellone. Certo questa è un po’ una provocazione ed una esagerazione, ma serve solo per farvi entrare nella parte. Le identità che viviamo quotidianamente possono essere diverse. La stessa persona potrebbe averne più di una. Certo è, che tra i diversi ruoli che recitiamo ce n’è uno che tendiamo a rivestire con maggiore facilità. Come se in quei panni ci sentissimo più a nostro agio.

È il ruolo che conosciamo meglio, quello che abbiamo imparato ad usare e che è diventato così familiare per cui facciamo fatica ad abbandonarlo anche quando siamo fuori da quella situazione. Questo è il problema dell’identità. Finiamo per credere che quella maschera che ricopriamo in quel determinato luogo e in quella situazione siamo effettivamente noi. Ma avete notato che quando siamo ad esempio nella situazione lavoro, magari quella identità è funzionale a quel momento e invece in altri contesti, ad esempio a casa, con gli amici, o in relazione, c’è qualcosa che inevitabilmente stride? Le stesse cose che facciamo quando ricopriamo la maschera del lavoro non hanno la stessa resa in altri contesti. Lo avete notato? Siete dei bravissimi professionisti e in altre settori la vostra vita non è proprio come la vorreste. Perché? Cosa vi manca? Cosa non vi è chiaro? Cosa fate o non fate che fa cambiare l’equazione? Eppure ci sembra che gli ingredienti siano gli stessi. Avete ad esempio mai notato la vostra energia nei contesti che funzionano e in quelli che non funzionano? Siete consapevoli della differenza? Vi chiederete forse cosa c’entra questo discorso. Bene. C’entra eccome. C’entra perché quando in un ambito della nostra vita le cose funzionano significa che in quel momento abbiamo un’energia espansa e che accediamo ad uno spazio di interiorità che ci connette con i nostri doni e le nostre caratteristiche principali: in parole povere con i nostri punti di forza. In questo caso siamo naturalmente aperti, disponibili e funzionali. Sappiamo rispondere in modo originale agli stimoli esterni con il nostro bagaglio personale.

Ma se questo rispondere si trasforma in qualcosa di solido e rigido e lo applichiamo senza consapevolezza alcuna in ogni settore della nostra vita, allora quello che succede è che perdiamo non solo in elasticità e disponibilità, ma anche in apertura della nostra energia. A questo punto cosa succede? Succede che un’identità prende il sopravvento sulle altre e a quel punto rimaniamo vittime di quella maschera. Questo contrae la nostra energia e ci rende pieni di tensioni e conflitti sia dentro che fuori. Finisce che crediamo di essere quello che facciamo, finisce che ci identifichiamo con le nostre azioni. Comprimiamo il nostro essere in ruoli. Ma noi non siamo il nostro lavoro, la nostra relazione, né i nostri figli, insomma non siamo i nostri ruoli. I ruoli sono maschere e come tali vanno indossate, usate correttamente per quelle scene proprio come se fossimo a teatro. Ogni momento abbiamo l’opportunità di smettere di credere di essere quello che facciamo, di ricordarci chi siamo, di espandere la nostra energia e di fluire sulle onde della nostra vita leggeri come il vento.

Oriana Russi newsletter
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